Una cittadina all’insegna dell’arte

vergineA ben vedere, non vi sono motivi per relegare Montelupone nell’ambito di quelle cittadine provinciali incapaci di esprimere forme di creatività artistica di qualche significato; infatti, sebbene la sua notorietà sia stata in qualche modo soverchiata da quella di altri centri vicini, come Recanati e Loreto, il patrimonio artistico racchiuso entro le antiche mura urbiche dimostra che nei secoli passati, dal XV ai primi decenni del nostro, Montelupone ha ospitato artisti di grande fama, chiamati dagli ordini religiosi o dai committenti del patriziato locale, desiderosi di emulare quanto avveniva nelle città d’arte più vivaci dello Stato Pontificio; cosicché l’occhio dell’esperto non può trascurare di cogliere in un tessuto edilizio improntato ad un vivace eclettismo i segni lasciati dall’arte dei secoli passati ed i riflessi del succedersi dei vari stili nel complesso intreccio di vicende politiche e culturali, nell’articolato dipanarsi dei rapporti artistici fra centro e periferia.
Dopo le complesse e non sempre chiare vicende dell’arte medievale, il rinnovamento quattrocentesco di Montelupone può essere interpretato come un riflesso di quanto avveniva nella vicina e prospera città di Recanati, dove nella prima metà del XV secolo s’era sviluppata una vivace scuola pittorica sostenuta dall’opera di Pietro di Domenico da Montepulciano e di Giacomo di Nicola da Recanati, interpreti non secondari di un gusto elegante e forbito che s’era alimentato della cultura figurativa veneziana, mediata attraverso l’attività marchigiana di Jacobello del Fiore. Proprio a Giacomo di Nicola ci sembra possa essere riferito l’affresco raffigurante la Vergine in trono fra i Santi Rocco e Sebastiano dell’antica abbazia di San Firmano, già ascritto alla scuola di Gentile da Fabriano per i toni cortesi della messa in scena; l’articolata struttura del trono di Maria, che sembra una sfida alle regole prospettiche da pochi anni elaborate a Firenze, ma soprattutto la fisionomia dei volti tondeggianti, come fissati dal pennello dell’artista in un’espressione di attonita contemplazione, rispecchiano i modi del pittore recanatese quali ci appaiono nelle sue opere di sicura autografia, come i pannelli del polittico della Cattedrale di Recanati, oggi divisi fra il locale Museo Diocesano, la Pinacoteca Nazionale di Bologna, il Musée du Petit Palais di Avignone e una raccolta privata toscana. Capace anche di dipingere – a fresco – di eleganti digressioni, attento a quelli che potremmo definire come aspetti epidermici della pittura, Giacomo di Nicola indugia con finezza nel delineare i contorni fluttuanti delle pieghe dei manti, la varietà delle stoffe, l’elaborato sviluppo architettonico del trono, un vero trionfo tardo gotico fatto di esili colonne tortili, archi trilobati, pinnacoli svettanti. Di ben diversa portata ci appare invece, agli inizi del XVI secolo, la presenza a Montelupone di Antonio da Faenza, pittore e architetto romagnolo formatosi in patria, dove la lezione dell’arte toscana era giunta precocemente per merito di Giuliano e Benedetto da Majano, chiamati alla progettazione della Cattedrale. Forse seguendo i due fratelli toscani nella loro discesa verso le Marche dove erano stati chiamati per dirigere i lavori della Basilica di Loreto, Antonio da Faenza giunge a Montelupone per studiare la prospettiva con il francescano Antonio da Camerino, noto teologo nonché esperto in varie scienze, che avrebbe introdotto il pittore nel campo della cultura umanistica; circostanza questa che ci illumina circa la vivace cultura antiquaria che circolava nei conventi francescani delle Marche.
La più antica delle opere monteluponesi di Antonio è la tela con la Vergine e i Santi Pietro e Paolo, già conservata nella chiesa di San Pietro ed oggi nella Collegiata; pur segnata dai guasti prodotti dal passare del tempo, la composizione rivela nei ritmi pausati una derivazione dalla Sacra Conversazione dipinta da Antonio Solaro per la chiesa del Carmine a Fermo e in certe asprezze grafiche una calibrata interpretazione dei modi di Luca Signorelli. Più complessa appare invece la grande pala già in San Francesco (1525), a partire dal monumentale invaso architettonico di memoria bramantesca che accoglie i vari Santi effigiati dal pennello di Antonio, qui particolarmente attento a rielaborare i modelli lotteschi che contribuiscono a dare un più profondo spessore emotivo ai personaggi. L’ultimo scorcio del XVI secolo e i primi decenni del successivo, sono segnati per la pittura locale dall’osservanza delle norme impartite agli artisti in occasione del Consiglio di Trento, divulgate in ambito locale dal – Dialogo sopra gli errori dei pittori – del sacerdote fabrianese Giovanni Andrea Gilio; anche a Montelupone fiorisce così una significativa produzione di dipinti sacri controriformati, destinati all’educazione morale e religiosa dei devoti. La creazione di nuovi altari nelle chiese di più antica costruzione, come quella di San Francesco, favorì dunque l’attività di artisti forestieri e locali che si espressero in modo piuttosto discontinuo; all’alta qualità della Madonna Immacolata del fiammingo Ernest Van Schayck (1631), pervasa di accenti devoti sostenuti da un’attenta lettura dei modelli del classicismo bolognese, corrispondono il tono aulico della tela raffigurante San Carlo Borromeo derivata dai modelli di Giovan Francesco Guerrieri, i caratteri pianamente illustrativi della Madonna del Rosario già in San Francesco, il tono devoto e ispirato della Estasi di San Francesco, legata alla cultura del Peruzzini. Sull’altare maggiore della chiesa di Santa Chiara è collocata una tela del raro pittore messinese Onofrio Gabriello (1619 – 1706), firmata e datata 1695; costretto a lasciare la Sicilia nel 1674 per il suo atteggiamento filofrancese, nel suo girovagare fra la Francia e l’Italia fece tappa anche ad Ancona e forse in quella circostanza venne incaricato di eseguire la tela per Montelupone, ricordata nell’Inventario della Prepositura risalente al 1726 e in quello del Monastero di Santa Chiara del 1767. Se l’arte barocca, nei suoi aspetti più aulici e teatrali, non sembra aver trovato spazio nella produzione cittadina, di ben diversa portata ci appare la situazione locale intorno alla metà del XVIII secolo, quando anche Montelupone come tutti i centri vicini, sembra animarsi di una vitalità artistica nuova: nei cantieri aperti presso le principali chiese cittadine ferve l’opera di carpentieri, manovali, stuccatori, decoratori, ebanisti e tappezzieri, mentre nei palazzi signorili ci si adegua alle nuove regole della vita di società che impone piacevoli passatempi ed erudite conversazioni. Negli anni che vedono accrescersi i redditi della proprietà fondiaria, soprattutto per i consistenti vantaggi derivanti dalla coltivazione del grano, non mancano infatti le risorse finanziarie da investire nel campo edilizio.

madonnaCancellando ogni superstite elemento gotico, la chiesa di San Francesco venne ridisegnata dal camaldolese Giuseppe Antonio Soratini, attivo anche a Fabriano e ad Urbania, che ne ridefinì l’interno secondo i modelli di un elegante gusto rococò; terminati nel 1753 i lavori, si provvide alla decorazione dell’aula, facendo eseguire allo scultore fiammingo Pietro Lejeune le statue rappresentanti le tre Virtù Teologali e la Sacra Romana Chiesa, all’ebanista Giovanni Rossini i confessionali, mentre da Venezia giungeva l’organo del celebre Pietro Nacchini. Nuovi interventi edilizi, effettuati fra il 1765 e il 1781, si resero necessari per cercare di arginare i danni determinati da un cedimento della struttura dovuto al manifestarsi di una piaga che ha segnato il destino edilizio di Montelupone fino a pochi decenni orsono: gli interventi degli architetti Gaetano Maggi, Francesco Vassalli e Francesco Maria Ciaraffoni posero momentaneamente rimedio alla situazione franosa, creando un sistema di gallerie drenanti e legando le pareti degli edifici con chiavi in ferro che ne garantissero meglio la stabilità. In una data fatidica per la storia dell’Europa, nel luglio del 1789 anche le Clarisse decidevano di ampliare la loro chiesa e l’architetto Andrea Vici di Arcevia forniva il nuovo progetto per il coro e forse quello dell’intera aula, offrendo una versione elegante dei modelli vanvitelliani: il luminoso interno ornato di candidi stucchi e di cantorie lignee finemente intagliate si avvale di un’importante presenza, quella dello scultore Gioacchino Varlè, cui si devono gli angeli che coronano il timpano dell’altare maggiore. Dell’antica decorazione pittorica preesistente si salvava soltanto un piccolo frammento di affresco raffigurante il volto della Vergine, risalente probabilmente alla metà del XV secolo. In perfetta sintonia con il tono di grande eleganza che impronta la chiesa, vennero realizzate quattro porte e uno sportellino per la ruota dall’ebanista anconetano Cristoforo Casari che le ornò con scene pastorali e figure di santi ispirate a consacrati modelli figurativi; era il 1796 e l’anno seguente l’arrivo delle truppe francesi poneva fine a quel momento magico per lo sviluppo artistico marchigiano.
Il terzo cantiere aperto a Montelupone intorno alla metà del XVIII secolo era quello della Collegiata, consacrata nel 1747, di cui non conosciamo il nome del progettista, certo un architetto locale che ben conosceva i nuovi modelli introdotti nelle Marche da Luigi Vanvitelli: oggi la chiesa raccoglie varie opere d’arte provenienti da altre istituzioni religiose, fra le quali si segnalano la Madonna del Carmine (1712) del vadese Francesco Mancini, l’Educazione della Vergine (1744) del camerte Giuseppe Nanzoni, il San Michele Arcangelo del fermano Filippo Ricci (1789), tutti dipinti improntati ad una raffinata rielaborazione dei modelli del Classicismo romano del primo Settecento. Assai notevole risulta il ricco corredo dei reliquiari conservati nella sagrestia che interpretano i modelli più frequenti a lanterna e a mezzobusto con la fantasia propria degli artigiani locali, abilissimi nell’intagliare il legno e nella doratura. L’occupazione francese segna anche per l’arte monteluponese una fase di stallo che, nonostante qualche timido tentativo di ripresa negli anni della Restaurazione, si protrasse fino alla fine dell’Ottocento. I segnali della rinascita erano dati dalla necessità di nuove opere pubbliche, come la costruzione del teatro comunale, l’ultima opera del grande architetto settempedano Ireneo Aleandri; sul plafone il pittore ascolano Domenico Ferri, decoratore dei palazzi reali sabaudi, realizzava una scenografica decorazione allegorica capace di trasportare nelle quiete contrade picene la retorica ufficiale dell’Italia umbertina.

carloborromeo
L’apertura del nuovo secolo vedeva presente a Montelupone il pittore Biagio Biagetti, autore in Palazzo Emiliani di un fregio raffigurante le Quattro stagioni interpretate attraverso il ciclo vegetativo del grano, dalla semina fino alla produzione del pane. Inquadrate da flessuosi tralci di gusto liberty, le scene sono improntate ad un rigoroso dettato accademico che rivela l’eclettica cultura del maestro piceno. Negli anni Venti e Trenta si consuma fra Montelupone, ove era nato nel 1908, e Roma la breve ma intensa parabola creativa di Corrado Pellini, autore di tele soffuse da un tono di elegiaco raccoglimento, caratterizzate dalle ampie campiture cromatiche che rivelano il suo legame con la grande tradizione figurativa del Trecento e del Quattrocento italiano. Intorno alla metà degli anni Trenta, Elia Bonci portava a compimento la decorazione della piccola chiesa rurale di San Vincenzo Ferreri a Montenovo manifestando il suo apprezzamento per uno stile assai ricco di riferimenti eclettici alla stagione tardo gotica, in sintonia con il gusto al quale Ludovico Seitz e lo stesso Biagetti avevano improntato la decorazione delle cappelle absidali della Basilica di Loreto. L’ultimo grande impegno figurativo riguardava la Collegiata, dove fra il 1934 e il 1941 Cesare Peruzzi dipingeva la Cappella dell’Addolorata, rivelando una grande sensibilità nell’affrontare temi sacri secondo una personale e vibrante interpretazione dei dettati della corrente – Novecento Italiano. L’arte a Montelupone confermava così la propria vitalità, esprimendo anche attraverso la produzione satirica di Ratalanga (Gabriele Galantara) l’aggiornamento culturale del piccolo centro marchigiano; il suo lento declino, segnato anche dal riacutizzarsi del fenomeno franoso che ha lesionato molti edifici del centro storico, sembra oggi finito e la consapevolezza di appartenere ad una gloriosa tradizione artistica potrà segnare anche per Montelupone l’inizio di un nuovo rinascimento.

Prof. Stefano Papetti

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